Perché le donne italiane lavorano meno? - Piano terra lato parco

In Italia, quasi la metà della forza lavoro femminile disponibile non lavora. Nella statistica dei paesi europei siamo penultimi con il 52,5% di occupazione femminile. Peggio di noi unicamente la Grecia, fanalino di coda con solo il 48% di donne occupate.
Perchè le donne italiane non lavorano? Qual è il fattore discriminante nella ricerca di un’occupazione per una donna?
Nel 2015 Donna Moderna, settimanale femminile diretto da Annalisa Monfreda, e Bionike, azienda leader nel settore della dermocosmetica, hanno promosso su questo tema un’indagine statistica che ha visto partecipare un campione di 6928 donne e 649 uomini.
I punti principali emersi dal sondaggio possono essere riassunti come segue.
– Le donne hanno difficoltà a riconoscersi in modelli di donne che hanno raggiunto posizioni di vertice.
Solo una percentuale che va dal 52 al 54% delle donne intervistate dichiara di riconoscersi in donne che hanno trovato un ruolo nel campo dell’informazione, delle scienze o della medicina; appena il 22% di loro si riconosce nelle congeneri che lavorano nell’amministrazione pubblica; la percentuale di donne che si sente rappresentata cala al 17% se il paragone offerto è nel campo dell’economia e della finanza; solo il 10% trova un riferimento nelle donne impegnate nella politica.
Da un punto di vista culturale, quindi, le donne fanno fatica ad identificarsi in posizioni di elevato livello di specializzazione, influenti o di potere.
Secondo Francesca Zajczyk, professore ordinario di Sociologia Urbana presso il Dipartimento di Sociologia e ricerca Sociale dell’Università di Milano–Bicocca, Mobility Manager presso il medesimo Ateneo ed ex delegata alle Pari opportunità per il Comune di Milano, gli errori più comuni commessi dalle donne nel mercato del lavoro sono proprio di matrice culturale:
- hanno scarsa autostima
- sono poco ambiziose
- si sentono in colpa nei confronti dei figli per il tempo trascorso fuori casa
- non vivono la carriera come un diritto
Avete mai sentito una donna commentare la posizione delle casalinghe dicendo “piacerebbe anche a me starmene a casa coi miei figli ma purtroppo devo lavorare” ?
Io sì, moltissime volte. Molte donne, non tutte, vivono il lavoro e la carriera come un fardello da evadere con tutto il peso di un dovere ingrato. Qualcosa che – potendo – si toglierebbero volentieri di torno.
– Le donne sono spesso insoddisfatte del loro lavoro.
Secondo quanto rilevato da Istat nell’indagine “Aspetti della vita quotidiana” del 2016, circa il 23,5% delle donne occupate ha dichiarato di non essere soddisfatta del proprio impiego.
Due anni dopo, il rapporto di AlmaLaurea sulla situazione occupazionale dei laureati confermava che in Italia le donne risultano meno soddisfatte del proprio lavoro rispetto agli uomini. Nello stesso rapporto si evidenziavano quelle che possono essere ritenute le cause oggettive di questa insoddisfazione:
- a 5 anni dalla laurea magistrale solo il 50,1% delle donne ha un contratto a tempo indeterminato, contro il 60,3% degli uomini;
- a 5 anni dalla laurea magistrale, il differenziale retributivo è alto: le donne guadagnano il 18,3% in meno dei colleghi uomini;
- a 5 anni dalla laurea magistrale, meno del 50% delle donne svolge un lavoro ad alta specializzazione . Gli uomini, invece, sono il 59,2%.
– Cosa succede con l’avvento della maternità?
L’Italia non è un paese per madri lavoratrici, questo lo sappiamo da tempo. La retrocultura che vuole la donna meno adatta a ricoprire alcuni generi di incarichi è ancora molto forte e si riflette, inaspettatamente, anche tra le sacche della popolazione più scolarizzate, laddove si pensi che in Italia e in Europa solo 1 donna su 3 ricopre ruoli dirigenziali (Fonte rapporto Eurostat 2019).
Sempre il rapporto AlmaLaurea ci informa che a cinque anni dalla laurea, la percentuale di occupate senza prole è dell’84,1% e supera le occupate con prole di ben 18 punti percentuali.
Il problema, nell’opinione comune, sarebbe riferibile alla mancanza di adeguati servizi di sostegno alla famiglia e all’infanzia, costringendo dunque le donne a scegliere tra il proprio lavoro e l’essere madre.
In effetti, secondo i dati di Fondazione Openpolis, nelle quattro regioni nelle quali oltre il 35% dei bambini da 0 a 3 anni frequenta un nido o un servizio integrativo, Valle d’Aosta, Umbria, Emilia Romagna e Toscana) il tasso di occupazione femminile supera il 60% dei casi.
Vediamo le percentuali nel dettaglio:
- La Valle d’Aosta possiede un tasso occupazionale femminile del 65%, a fronte di ben 45 posti su 100 per bambini tra 0 e 2 anni;
- L’Umbria possiede un tasso occupazionale femminile del 65% a fronte di 41 posti su 100 per bambini tra 0 e 2 anni;
- L’Emilia Romagna segue, con un tasso occupazionale del 63% a fronte di 37 posti su 100 per bambini tra 0 e 2 anni;
- Infine, la Toscana possiede un tasso di occupazione femminile del 64% a fronte di 35 posti su 100 per bambini tra 0 e 2 anni
Openpolis ha dunque concluso che la relazione tra accoglienza negli asili e nei servizi integrativi e tasso di occupazione femminile sia direttamente proporzionale e che dove ci sono più asili, dove ci sono servizi integrativi su cui le famiglie possono fare affidamento, le donne tenderebbero a lavorare di più.

Ma se questo fosse vero, come mai troviamo Regioni – come la Lombardia, il Piemonte, il Veneto o il Friuli Venezia Giulia – nelle quali il tasso di occupazione femminile è uguale o superiore a quello della Val d’Aosta pur con una percentuale di accoglienza nei nidi e nei servizi integrativi ben più bassa?
La Lombardia, per esempio, accoglie solo 28 bambini su 100 nella fascia 0-2, eppure ha un tasso di occupazione femminile superiore a quello di tutte e quattro le Regioni considerate più virtuose dall’indagine di Openpolis.
Analogamente, il Piemonte vanta il medesimo tasso occupazionale femminile delle altre Regioni considerate ma con una recettività infantile percentuale più bassa di diversi punti.
Il Consiglio Europeo, già nel 2002 esprimeva la convinzione che ci fosse una relazione diretta tra presenza e ricettività di strutture educative per l’infanzia e tasso occupazionale femminile. In tal senso aveva, infatti, espresso la raccomandazione che tutti gli Stati membri – nel più breve tempo possibile e comunque entro il 2010 – raggiungessero un livello di assistenza all’infanzia pari almeno alla copertura del 90% dei bambini nella fascia compresa tra i 3 anni e l’obbligo scolastico ed al 33% per i bambini di età inferiore ai 3 anni.
E allora perchè in almeno altrettante Regioni rispetto a quelle valorizzate dai dati di Openpolis, il teorema degli asili non funziona allo stesso modo?
Verrebbe da considerare il fattore nonni e dire che probabilmente il tasso di occupazione femminile riesce a mantenersi alto perchè le famiglie possono contare sulla presenza dei propri cari nelle cure dei nipoti. Ma questo accade, come è risaputo, nelle Regioni del Nord indistintamente e molto più che in quelle del Sud, dove pure l’offerta nei servizi educativi è più bassa. Nonostante ciò, in almeno 3 Regioni del sud il tasso occupazionale femminile riesce a mantenersi tra il 40 ed il 50%, pur con offerta di servizi educativi che talvolta scende a meno della metà della Val d’Aosta:
- Il Molise ha un tasso di occupazione femminile del 50%, rispetto a un’accoglienza di appena 22 bambini su 100;
- Abruzzo ha un tasso di occupazione femminile del 43% rispetto a un’accoglienza di 21 bambini su 100;
- Basilicata, plauso assoluto, ha un tasso di occupazione femminile del 40% con un’accoglienza ridotta a 15 bambini su 100.
Mi viene, dunque, da osservare, che il teorema degli asili non sia così assoluto come si ritiene, perchè nelle Regioni che hanno un’accoglienza infantile meno virtuosa il tasso occupazionale femminile riesce a mantenersi alto grazie al ricorso a forme di sostegno familiare differente. E questo mi porta a pensare che ciò che segna davvero la linea di discrimine nel gap occupazionale tra Regioni sia la consapevolezza dell’importanza dello sviluppo personale e professionale al di fuori del nucleo domestico ed il desiderio di lavorare non vissuto come mera necessità economica familiare.
– Le donne che non desiderano lavorare
Da quanto detto sin qui emerge con maggiore chiarezza un dato ulteriore, confermato a livello statistico in modo piuttosto importante.
In Italia, c’è una consistente quota della forza lavoro femminile che non lavora indipendentemente dalla maternità.
Nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 49 anni, solo il 62,4% delle donne senza figli ha un lavoro.
La media Europea è del 77,2%: nella maggioranza degli Stati dell’Unione, le donne con due figli lavorano in percentuale maggiore delle italiane senza figli.
Se prendiamo a paragone le donne Francesi con 3 figli, TRE, lavorano nel 59,1% dei casi.
La considerazione che mi viene immediata, per esperienza diretta riferitami da molteplici amiche che vivono in Francia, è che lì la scuola è molto più accogliente, sì…ma è anche vero che in Francia avere una tata fissa di riferimento è assolutamente normale. Mentre in Italia, è assolutamente normale pensare “se devo girare lo stipendio alla tata sto a casa io e mi godo i miei figli“.
E mi chiedo, a prescindere da quel che ne penso io di questo atteggiamento, pur ammettendo che sia giusto pensare di rinunciare al lavoro per badare ai figli, la giustificazione delle donne senza figli invece qual è?
Su questo punto non ho trovato alcuna indagine statistica e invece sarebbe un punto interessantissimo da indagare, perchè in rete ho letto moltissime volte storie di donne che dichiaravano di preferire lo status di disoccupata all’idea di lavorare alle dipendenze di qualcuno che ritenevano meno competente di loro. Altrettante, dichiarano di scegliere di non lavorare per non aver mai trovato o non riuscire a trovare un impiego all’altezza delle proprie competenze.
In un paese come il nostro, con il nostro sistema previdenziale, non è sostenibile sul lungo periodo una situazione in cui la metà delle donne in età da lavoro sia priva di occupazione.
Non è soltanto un problema di pil, di debito pubblico e reddito pro capite, di pensioni e assistenzialismo, anche se questi sono tutti problemi importantissimi.
Principalmente, è ancora un problema di cultura personale.
Nel 2019, in Italia, la popolazione femminile di età compresa tra i 15 e i 34 anni – mediamente l’età in cui si affronta un percorso di studi per la realizzazione di se stesse e della propria carriera – contava 6.052.444 individui.
Il 10,32% di queste donne, quindi 625.000 donne tra i 15 e i 34 anni, ha dichiarato all’Istat di non avere un lavoro, di non cercarlo, di essersi dedicata alle cure domestiche, dei figli e dei mariti e di essere soddisfatta così. Nel 2019.
Queste ragazze, rappresentano l’8,5% del totale delle casalinghe italiane, la cui età media è generalmente molto più alta. E non vivono solo al sud, come si potrebbe facilmente pensare in base ai dati che abbiamo visto insieme: Il 37% vive nelle regioni del Nord.
Qualche mese fa ho fatto un esperimento.
Senza alcuna presunzione di aver avviato un’indagine statistica, come mero argomento di chiacchericcio in un gruppo facebook di donne e mamme, ho postato un articolo che parlava di come una donna inglese avesse lasciato il proprio impiego per fondare un’accademia di “angeli del focolare“: una sorta di imprenditrice digitale che però insegna alle altre donne, anche con un certo seguito, che può essere normale e accettabile non riconoscersi in un paradigma sociale che vede la donna e mamma come lavoratrice fuori casa, preferendo dedicarsi alla cura del focolare domestico.
Credevo che avrei raccolto centinaia di commenti indignati. Speravo quantomeno che le donne, in larga misura, rivendicassero un principio nel quale, come giurista, credo profondamente: il lavoro è un diritto e un dovere a cui tutti dovremmo prestare osservanza, uomini e donne.
Invece, semplificando ma neanche tanto, un buon 80% dei commenti andò nel senso di dire che ogni donna ha diritto di scegliere se vuole lavorare o no, l’importante è che non sia costretta, nè in un senso nè nell’altro.
La domanda principale che mi pongo, dopo aver letto tutti questi dati è: perchè le donne italiane decidono di non lavorare molto più delle loro congeneri europee? Non hanno voglia? Non sentono la necessità di essere realizzate ed economicamente indipendenti? Considerano la realizzazione professionale alternativa, e non cumulativa, a quella familiare?
Ma soprattutto, atteso che la mancanza di un reddito proprio crea uno squilibrio evidente nella coppia, con tutti i rischi che ben conosciamo in caso di soprusi e violenze domestiche, siamo veramente sicuri che il libero arbitrio sia ancora il criterio supremo che deve orientare la scelta di una donna in questo campo?
