Mamma, chi era Giovanni Falcone? - Piano terra lato parco


Il 23 maggio 1992, quando Giovanni Brusca azionò una bomba di 5 quintali di tritolo uccidendo Giovanni Falcone, la sua compagna Francesca Morvillo e i 3 agenti della scorta – Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani – io avevo 11 anni e mezzo.
Non ero più una bambina, non giocavo più con le barbie da tempo ed ero in grado, all’occorrenza, di cucinarmi un pasto completo. Ma non ero ancora un’adulta e certamente non ero abbastanza grande per capire davvero il significato profondo di quanto accadde quel giorno.
Ciò che accadde quel giorno fu nè più nè meno che il fallimento più grande che lo Stato italiano abbia totalizzato nella lotta alla mafia.
Giovanni Falcone aveva iniziato la sua carriera di magistrato a 25 anni.
All’inizio non ci pensava minimamente a fare il magistrato antimafia. Forse, all’inizio della sua carriera erano ancora tutti convinti che la mafia non esistesse.
In realtà, all’inizio della sua vita, Falcone non voleva neppure fare il magistrato, voleva laurearsi in Ingegneria.
Ma siccome Dio, o il karma (a seconda di ciò in cui credete), quando si impegnano riescono a far succedere l’impossibile, alla fine fu in giurisprudenza che si laureò.
L’inizio della sua storia come giudice antimafia si deve all’inchiesta contro Rosario Spatola, un imprenditore palermitano che riciclava il denaro proveniente dai traffici italo-americani di narcotici di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e Gambino.
Era stato Rocco Chinnici , primo teorizzatore del pool antimafia, ad affidargli quella indagine. E quando Chinnici fu assassinato, sempre dalla mafia, il 29 luglio 1983, il suo successore Antonio Caponnetto decise che il momento del pool era arrivato.
Nacque così quella straordinaria squadra di magistrati che dedicarono e sacrificarono la loro vita alla causa della giustizia in sicilia.
E nacque così anche il metodo Falcone: dalle idee di un uomo che desiderava restituire la sua regione ai siciliani onesti, estirpando un male profondo e talmente ben radicato da essere invisibile. Talmente invisibile che la gente era convinta – e in certa misura lo è ancora oggi – che la mafia in realtà fosse solo un’invenzione. Che non esistesse.
Falcone, Borsellino e gli altri magistrati del pool istruirono il primo maxi processo di Palermo: 475 imputati, poi ridotti a 460, perseguiti per reati di mafia. Un processo così non aveva precedenti nella storia della magistratura italiana: non esisteva nemmeno una struttura che potesse contenerlo e per questo fu costruita, accanto al carcere dell’Ucciardone, la famosa aula bunker di forma ottagonale che vi fece da scenario.
La sentenza comminò 19 ergastoli e una serie di condanne alla reclusione per un totale di 2665 anni di carcere.
In un paese normale, a questa esperienza sarebbero seguite altre conquiste, nella stessa direzione.
Invece, la popolarità del pool e quella di Falcone stesso, iniziarono ad incrinarsi. Il teorema di Falcone sulla collusione tra mafia e politica iniziava a manifestare gli effetti del suo cancro.
Il maxi processo di Palermo si concluse nel dicembre del 1987. Nel mese successivo Falcone perse la nomina a Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo: il CSM gli preferì Meli.
Meli prese servizio e smantellò il pool antimafia.
Quando Domenico Sica fu nominato all’alto commissariato per la lotta alla mafia, Falcone fu completamente esautorato.
Lentamente, nel corso del periodo che seguì, venne aspramente criticato e accusato, isolato da chi avrebbe dovuto sostenerlo e proteggerlo.
Furono vani anche gli appelli del collega e amico Paolo Borsellino affinchè la comunità politica e giudiziaria si stringesse attorno al magistrato, dimostrandogli sostegno, stima e collaborazione.
Ma Falcone era ormai solo. Quando vennero rivelate le circostanze del tentativo di attentato all’Addaura nell’89, ci fu chi disse che il tritolo rinvenuto inesploso se lo era comprato da solo, per attirare l’attenzione su di sè.
Questa fu la causa della morte di Giovanni Falcone. E anche se il suo attentato fu ordinato dai vertici di Cosa Nostra, oggi possiamo dire – con quello che sappiamo – che fu lo Stato a premere il tasto che detonò l’ordigno.
Falcone sapeva che sarebbe morto, così come lo sapeva Borsellino, che fu assassinato 57 giorni dopo sotto casa della madre; anche lui fu ucciso da un ordigno al tritolo, del cui arrivo al porto di Palermo era persino stato informato.
Tutti sapevano che sarebbero morti. Chinnici, Dalla Chiesa, Livatino, Falcone, Borsellino e tutti gli altri che hanno dedicato la propria esistenza alla legalità e alla giustizia, con paura ma anche con coraggio.
Quando il Giudice Antonio Caponnetto giunse sul luogo della strage di via D’Amelio, dopo la morte di Borsellino, disse “è finito tutto”.
Ma non era vero che era finita.
L’altra sera Edoardo ha visto in TV lo spot dedicato a Falcone: quello in cui si sente la giornalista Marcelle Padovani che lo intervista.
Mi ha chiesto chi fosse quel signore che stava parlando.
Gli ho risposto: “è Giovanni Falcone, il primo vero giudice antimafia della storia d’Italia, autore della più grande indagine mafiosa e istruttore del primo maxi processo a Cosa Nostra, quando la gente ancora diceva che Cosa Nostra era solo un’invenzione. Un uomo coraggioso, che ha insegnato alla tua mamma cosa sia il coraggio”.
– e che cos’è il coraggio, mamma?
-il coraggio, bimbo mio, è vivere per la verità, la giustizia e la legalità anche quando sai che ti costerà la vita, quando hai paura ma non lasci che la paura ti impedisca di lottare per quello che è giusto. Perchè il coraggio non esiste senza paura, senza paura è solo incoscienza”.
Il 23 maggio del 1992 alle 17.58 il tratto dell’autostrada a29 sull’uscita di Capaci deflagrò.
La morte di Giovanni Falcone, della sua compagna e della scorta rappresenta la morte di uno dei più grandi generali dell’esercito statale contro il crimine organizzato.
Ma non morirono le sue idee, che come lui stesso aveva previsto, avrebbero continuato a circolare grazie al lavoro di altri uomini onesti e coraggiosi.
Quel giorno, una ragazzina di 11 anni e mezzo decise che avrebbe lavorato nell’antimafia.
Diciotto anni dopo, quella ragazzina varcava per la prima volta la soglia di un’aula bunker, per partecipare al suo primo processo di mafia.
“gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”
Giovanni Falcone
In memoria del Giudice Giovanni Falcone, della sua compagna Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani
